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Nel cortile di fianco un uomo spazzava le foglie morte dal prato. Un volto curioso, pensai, sembra il superstite di una pulizia etnica. Un circasso o un assiro. Volevo avere la certezza di essere nel posto giusto. – Abita qui Madame Bounina? - Chiesi. L'uomo non rispose, si limitò a osservarmi con un sorriso ambiguo, come se ne trovano nei geroglifici. Il sorriso di un cane o di uno scarabeo. Dalla porta corse fuori un bambino, schizzò tra le gambe dell'uomo e prese a fissarmi anche lui. Mi incamminai verso il civico sessantuno. Bussai, e osservai emergere dalla penombra una vecchia ingobbita. – Questo è un quartiere di immigrati, - Si affrettò a precisare la vecchia, per spiegare l'incontro con il vicino di casa - Voi indigeni ci trovate curiosi, come animali di un bestiario. - – Non esistono indigeni in questa città. - Servì il tè con un vassoio di dolcetti slavi. Spiegai il motivo della mia visita, volevo parlare del suo defunto marito, Ivan Alekseevič Bunin. In una trasmissione radiofonica avevo sentito Madame Bounina parlare della sua amicizia con Čechov. – Ivan Alekseevič era un caro amico del Dottor Čechov, conservo un mucchio di lettere. Posso dire, con grande orgoglio, di possedere l'unica foto esistente del sorriso di Anton Pavlovič... Gliela mostro volentieri. Le interessa? - Chiese, eseguendo un sorriso la cui forma, o qualcosa nel suo leggero tremolìo, suggeriva l'appartenenza a un'epoca remota. L'epoca d'oro del cinema sovietico, in cui gli attori recitavano con la ...
È stato un bagno di sangue. Guardare il cielo scolorare fino al viola, al blu della notte, e poi sparire. A un angolo di strada, in questa notte lunga, c’è una casa elegante, fatta di grossi blocchi di pietra squadrati. Non so però la casa di che colore sia veramente. So solo il colore che ha di notte, tutte le notti, tutte le notti. È viola scuro, vinaccia, amaranto, così sembra, color del vino greco. E di balcone in balcone è cinta da gallerie di rampicanti rigogliosi che devono esser verdi, lo credo bene, cose vive, ma che di notte appaiono scolpiti, impastati a un buio vegetale. Anche ora, in mezzo al temporale che squarcia i cappotti e scuote di nausea i grandi abeti, i rampicanti sono duri contro il vento ...
Se dovessi cominciare la rassegna di questo mese – la prima dopo l’estate – con un emoticon, non avrei dubbi: 😱. E no, non voglio esprimere un urlo di lotta interiore, angoscia esistenziale o sensazione di alienazione. Né offrire una rappresentazione visiva, potente e tormentata, dell’ansia esistenziale umana, a un tempo personale e collettiva, come farebbe un banale Edvard Much. No, questo è un urlo di semplice sorpresa: veramente qualcuno si ostina ancora a credere che la letteratura possa cambiare la realtà? D’altra parte, il nostro secolo – come spiega un critico del New York Times – è il meno innovativo, per le arti, degli ultimi cinquecento anni (“cinquecento”, mica cotiche!). E perché – si chiede, quindi, lo stesso critico – la cultura si è fermata? «We are now almost a ...

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a cura di Sara Catalano

Quando qualcuno mi chiede cosa deve fare per esordire, dico sempre: scrivere sulle riviste, o ancor meglio fondarne una. Quasi sempre la risposta è uno sguardo stranito, come se la mia fosse una provocazione. Non lo è. E non solo perché è più facile fondare una rivista che scrivere un buon romanzo (farla vivere e prosperare, quello è più complicato, certo). La questione riguarda anzitutto lo scouting letterario: è ancora diffusa la credenza che per arrivare a una buona casa editrice le si dovrebbe inviare un manoscritto, il che equivale a mettersi in calzoncini corti fuori da San Siro nella speranza che passi Zhang (o Scaroni) e ci faccia un triennale da cinque milioni l’anno. In realtà, nella maggior parte dei casi, sono gli autori a venire trovati dagli editor, e gli editor li cercano sulle riviste. Ma non solo: scrivere sulle riviste, o ancor meglio averne fondata una, dimostra alle case editrici che siamo in grado di nuotare nell’aspro mare letterario anche da soli, e che saranno quindi minori le probabilità di finire stritolati da un sistema che è sempre stato un tritacarne, e lo è ancor più oggi che i meccanismi della distribuzione ne hanno accelerato in modo esasperato i processi, accorciando di conseguenza la vita attesa di ogni libro, a meno che non funzioni subito. Far parte di una rivista, in genere, garantisce la presenza di una “rete di sicurezza”, composta da altre persone interessate alla nostra scrittura, che potrebbero ospitarla, presentarla, commentarla, e far quindi sì che il nostro libro d’esordio non vada malissimo. Il che non corrisponde a far sì che vada bene, ma è già un primo passo: “Guarda ‘sto tizio, che scrive sulle riviste X e Y e ha fondato la rivista Z,” si dirà l’editor o il direttore editoriale, “magari se lo pubblichiamo non sarà un completo bagno di sangue.”

Ma le riviste non sono solo vivai o palestre. Qualche anno fa, fu proprio una rivista – Verde – a ricordarmelo, dicendo “Palestra? Una sega!”, parole che parafrasavano il nome di una nota rassegna letteraria sotterranea che avevo avuto la ventura di fondare (ecco un altro suggerimento per l’aspirante autore: organizzare rassegne letterarie) per rivendicare la ragion d’essere delle riviste in quanto tali, se non il loro ruolo di avanguardie. «Chiamateci dojo», concludevano quelli di Verde. Avevano ragione, così tanto che usai le loro parole in chiusura di un libriccino sull’insegnamento della scrittura. 

La cosa davvero importante, al di là di ogni considerazione relativa ai meccanismi dello scouting e a quelli del lancio (che pure esistono), è che per l’aspirante autore è fondamentale entrare in contatto con una comunità letteraria – e, se non la trova, crearsela. Perché sarà attraverso questo passaggio che arriverà a uno dei sensi profondi della letteratura: come aveva a dire Bolaño in una frase che mi piace sempre ripetere, i capolavori sono come sequoie o orchidee, ma non si è mai vista una sequoia o un’orchidea spuntare da sola fuori da una foresta o da una giungla. Le comunità letterarie, che possono essere riviste come rassegne o cenacoli di ogni ordine e grado, sono quella foresta. Contribuire a tenerla viva è già una buona ragione per scrivere; e, a quel punto, pubblicare o non pubblicare un libro, farlo prima o farlo poi, sarà una questione secondaria. Perché sarà scontato che prima o poi – quando sarà il momento – avverrà senza bisogno di forzare i tempi.

 

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