Le intelligenze artificiali sono un pericolo per l’arte?

Intervista a Demetrio Paparoni

Le intelligenze artificiali sono un pericolo per l’arte? Se lo è chiesto di recente Francesco D’Isa sull’Indiscreto. Nel frattempo, sempre sull’Indiscreto e su Linus, apparivano due Graphic Novel scritte da Vanni Santoni (uomo), e disegnate da Midjourney (macchina). Intanto Ai-Da Robot – un robot a forma di Desperate Houswife – esponeva i suoi dipinti a un evento satellite della Biennale di Venezia. Insomma, tutto sembra girare molto in fretta intorno alla solita-vecchia-domanda: può una macchina fare dell’arte? Lo abbiamo chiesto a Demetrio Paparoni, critico d’arte.

 

Chi si compra un quadro o una scultura di un’intelligenza artificiale, si compra un’opera d’arte?

Be’, per capirlo prima è necessario definire cosa sia un’opera d’arte.

Cominciamo bene.

Ci sono sempre due elementi caratterizzanti. Il primo, è che l’opera d’arte ha bisogno di una testa capace di esprimere un sentimento; in base a questo sentimento, o a un ragionamento – come può avvenire nel caso dell’arte concettuale – l’artista crea un oggetto che incarna un significato. Il secondo, è che l’opera d’arte è un oggetto, che può essere inserito in una dinamica di pensiero che affronta i problemi dell’arte.

Uhm.

Facciamo un esempio. Prendiamo un’opera iconica: la Brillo Box di Andy Warhol. La Brillo Box è una scultura che riproduce fedelmente scatole di pagliette saponate per pulire le stoviglie, marca Brillo. Ora, perché la copia perfetta di una scatola che puoi trovare al supermercato è un’opera d’arte? È un’opera d’arte perché nel generarla il suo autore ha fatto considerazioni sull’arte, e nel presentarla stimola tutta una serie di considerazioni (filosofiche) sull’arte, in altre parole, la Brillo Box ti consente di parlare di arte quando la guardi.

 

Andy Warhol, Brillo Box (Soap Pads), 1964. Polimeri sintetici e inchiostro serigrafico su legno, 43,3 x 43,2 x 36,5 cm ogni scatola. New York, The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.

 

Faccio un altro esempio.

Ti prego.

La banana di Cattelan. Ti trovi davanti a una banana scotchata a un muro. Strano, no? Insomma, una banana è una banana e lo scotch è lo scotch. Però quando Cattelan la espone sulla parete di una galleria, dicendo che è arte, all’improvviso ti consente riflettere: sul dadaismo, sul surrealismo, sulla natura morta, sulla caducità della vita (la banana che marcisce), sulla rappresentazione della banana fatta da Warhol…  volendo puoi arrivare fino al disco dei Velvet Underground. Cattelan si sta muovendo all’interno di un solco, che ha accumulato una serie di dati che gli permettono di partecipare a questo dibattito. Nel momento in cui tu artista-pensatore-cervello crei un oggetto, mettendolo in relazione a tutto questo, ecco, a quel punto si può parlare di opera d’arte.

 

Maurizio Cattelan, Comedian. Photo: RHONA WISE / EPA-EFE / Shutterstock.

 

E questo un’intelligenza artificiale non lo può fare?

Un’intelligenza artificiale, una macchina, può contenere tutti questi dati. Ma a differenza di Cattelan ­– che non contiene tutti i dati del mondo, che raccoglie dati sui fenomeni che l’hanno colpito di più – la macchina non può scegliere quali dati contenere. La macchina può solo catalogare e selezionare, perciò non può procedere artisticamente.

A meno che non possa scegliere quali dati catalogare e quali no.

Si può programmare una macchina perché crei dei filoni, ma sarà sempre il programmatore-artista a farlo, non vale.

Quindi non è l’assenza della mano dell’artista a rendere “non artistico” il prodotto di un’intelligenza artificiale.

No. Piuttosto un’assenza di testa pensante. La minimal art ha realizzato opere in maniera industriale, in cui la mano dell’autore non si deve sentire. Se tu prendi un’opera di Donald Judd, o di Sol Lewitt del periodo minimalista, tu sei messo davanti a un prodotto industriale, in cui la mano dell’artista è volutamente nascosta. E, aggiungo, non è neanche un problema di chi ha realizzato l’opera. La stessa banana di Cattelan non deve essere appesa sul muro da lui. Basta che qualcuno per conto suo metta lo scotch e faccia una foto, e quella è l’opera. La vera domanda da porsi è: può una macchina avere un sentimento? Può compiere un percorso individuale che la porti a inserire all’interno dell’opera un suo stato d’animo? La risposta, per ora, è no.

 

Senza titolo di Donald Judd alla  Chinati Foundation; cemento, 98½ x98½ x194 (ogni cubo) cube). Photo: Carol M. Highsmith / Buyenlarge / Getty Images; Archive photos.

 

Molti programmatori di intelligenze artificiali sostengono che le loro macchine col tempo acquisiscano la facoltà di decidere in autonomia, che sviluppino una sorta di personalità.

Certo, determinata, ripeto, dalle variabili iniziali che loro hanno deciso di inserire. L’artista, in questo caso, è chi programma la macchina. Chi si serve dell’intelligenza artificiale per ottenere un risultato. Se ci fai caso, però, la tendenza non è quella di utilizzare un’intelligenza artificiale per ottenere un prodotto concettuale, ma di usare l’intelligenza artificiale per ottenere un prodotto che ti ricordi quanto più possibile un lavoro fatto dalla mano dell’uomo, che crei l’illusione di un robot artista e autonomo. Quest’ultima operazione non è legittima.

In altre parole, della presenza umana non si può proprio fare a meno.  

Non credo. Aggiungo che, e magari mi sbaglio, non c’è nulla che una macchina possa immaginare nello stesso modo in cui lo può immaginare una mente geniale. Prendi un quadro di John Currin o di Lisa Yuskavage per quanto contestabili possano essere, c’è sempre un elemento geniale che ti fa riconoscere l’artista. Questo “elemento individuale”, questa “voce” non è stata per ora raggiunta da nessuna intelligenza artificiale, che ti fanno sempre vedere immagini già viste, come tante altre.

 

John Currin, Thanksgiving, 2003.
 

Dettaglio di Walking the Dog, 2009, olio su tela. Lisa Yuskavage. Prestito private al Baltimore Art Museum nel 2021.

 

Mi pare di capire che tu sia d’accordo con il filosofo John Searle quando, parlando di intelligenza artificiale, sostiene che una macchina può anche avere una sintassi, ma non una semantica, che manipoli simboli, ma senza comprenderne il vero significato.

Direi di sì. Ma la cosa che mi interessa chiarire è che una macchina può anche essere in grado di emulare un sentimento, ma non può fare nulla che nasca da un sentimento reale. E che anche nell’arte più radicale, come in Judd o Lewit, emerge sempre un sentimento.

Certo è difficile definire che cosa sia un sentimento.

Questo è vero. Che ognuno di noi abbia un vissuto però è incontestabile.  Diciamo allora che io escludo che l’opera d’arte non incorpori in qualche modo il vissuto dell’artista, anche se invisibile nell’opera, anche se volutamente criptato.

Una dimostrazione?

La dimostrazione ce l’hai quando analizzi il corpo d’opera di un artista. Tu vedi chiaramente che quel corpo d’opera ha degli alti e dei bassi. Per esempio, De Chirico ha fatto tutta una serie di lavori che poi non è riuscito a eguagliare in seguito, negli anni 60. Questo testimonia che il vissuto dell’artista comunque entra in gioco nell’opera d’arte. Che poi noi non siamo in grado di decriptarlo, quello è tutto un altro discorso, ma la prova che agisce sull’opera ce l’abbiamo. Prendi Kippenberger, in carriera ha fatto lavori molto diversi tra di loro, sembra quasi non appartengano allo stesso artista, questo certifica qualche modo la complessità del sentire umano, no? Al contrario il corpo d’opera di un’intelligenza artificiale si manterrà sempre a un certo livello, a meno che tu programmatore non decida di riorganizzare gli algoritmi in un certo modo perché ci siano delle determinate variazioni. Di nuovo, puoi programmare una macchina a fare cose diverse, ma l’hai programmata a fare cose diverse.

Insomma, un prodotto realizzato da una macchina resta un prodotto realizzato da una macchina.

Che sentimento può esprimere una macchina? Alla macchina manca la meta-riflessione, quella capacità che gli artisti hanno di riflettere sulle proprie emozioni o ragionamenti che li porta a generare un sentimento che poi tradurranno nell’opera d’arte.

E dei robot come “Ai-da” allora cosa ce ne facciamo? Cucine a gas?

 

Ai-Da Robot con un suo dipinto.

 

Nell’arte concettuale, l’opera d’arte è inscindibile dalle intenzioni che la sottendono. In questo caso, chi “mette in moto la macchina” fa arte se le sue intenzioni rientrano in qualche modo in una speculazione filosofica o concettuale sull’arte. L’opera d’arte vera non è l’azione della macchina, ma l’operazione nel suo insieme: le intenzioni iniziali, il programmarla per ottenere un oggetto, l’esporla… e così via.  La macchina può essere intesa come opera d’arte in quanto espressione di un’azione performativa. Esattamente come quando un artista fa una performance, la performance è l’opera d’arte, e quello che rimane è la foto o un video della sua performance, che lui decide di firmare e presentare come opera d’arte. Quel processo è l’opera d’arte, in galleria esponi la macchina che firmi o che dichiari che è tua, l’oggetto prodotto della macchina non è niente, è solo un feticcio. 

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